In un’epoca digitale dove l’immagine e la percezione pubblica sono tutto, è emerso un fenomeno che, pur non essendo nuovo, ha raggiunto livelli di influenza (e di preoccupazione) senza precedenti. Gli “influencer” sono diventati figure chiave nel modellare gusti, opinioni e tendenze, sostenuti da legioni di seguaci che pendono dalle loro labbra. Ma è giusto chiedersi: chi alimenta realmente questo circolo vizioso? La risposta, scomoda ma necessaria, punta verso due direzioni principali: i “deficienters”, ovvero coloro che seguono gli influencer senza discernimento critico, e i brand, che hanno scelto di alimentare l’egocentrismo di queste figure con campagne promozionali a volte milionarie.
La relazione simbiotica tra influencer e deficienters è alquanto preoccupante. Quest’ultimi, anziché cercare di costruire un pensiero critico o interessarsi a questioni di sostanza, preferiscono vivere indirettamente attraverso le vite apparentemente perfette ma profondamente artificiali dei loro idoli digitali. Questa realtà distorta contribuisce non solo alla diffusione di un modello di successo irrealistico e inaccessibile per la maggior parte delle persone ma perpetua anche una cultura dell’apparenza che svaluta il merito e la sostanza.
Ancora più criticabile è il ruolo dei brand in questo scenario. Le aziende, in un tentativo miope di cavalcare l’onda della popolarità digitale, affidano a questi influencer campagne promozionali dal costo esorbitante. In questo modo, non solo validano l’idea che la visibilità sia sinonimo di credibilità ma contribuiscono anche ad alimentare l’egocentrismo e la vanità di figure che spesso hanno poco di significativo da offrire al di là dell’immagine. Questa strategia di marketing rischia di svilire il valore intrinseco dei prodotti e dei servizi offerti, riducendo tutto a un mero gioco di popolarità.
Il messaggio qui è chiaro: le aziende e i brand dovrebbero interrompere questa corsa al ribasso culturale e ritornare a comunicare i propri valori in prima persona. Invece di affidarsi a intermediari digitali, i cui principi possono essere quantomeno discutibili, è tempo di riappropriarsi della narrazione e di promuovere un modello di consumo consapevole, basato su valori autentici e non su mere logiche di visibilità.
Parallelamente, è cruciale che gli utenti inizino a interrogarsi sulle proprie scelte di consumo mediatico. Seguire acriticamente gli influencer, credendo ciecamente nelle realtà che essi dipingono, non solo è un disservice verso se stessi ma contribuisce a perpetuare un sistema che premia la forma sulla sostanza. È tempo di smettere di vivere per procura attraverso gli schermi e iniziare a concentrarsi su ciò che realmente conta: la costruzione di una vita autentica, lontana dalle luci abbaglianti ma effimere della fama digitale.
La responsabilità di cambiare questa dinamica non ricade solo su un singolo attore ma è condivisa: i brand devono riscoprire la forza della comunicazione autentica, mentre gli utenti devono esercitare un maggiore discernimento nelle loro scelte digitali. Solo così potremo sperare in una cultura mediatica che valorizzi la realtà e la sostanza, non l’illusione e l’apparenza.